Elsa Fonda

Elsa Fonda

La libertà comincia con le parole

Roberto Saviano

Nel romanzo La cresta sulla zampa Elsa Fonda intreccia con grande sensibilità umana, acuta analisi psicologica, onestà intellettuale e icastica scrittura la propria storia con quella della sua gente e della sua terra.

Molto originale e frutto di accurate ricerche è il continuo riferimento a fatti storici, accaduti in Istria e specialmente a Pirano dall’antichità ai giorni nostri, che incornicia o affianca gli avvenimenti descritti nell’autobiografia. La scrittura di Elsa Fonda – un italiano impreziosito da frequenti forme dialettali che conferiscono al romanzo momenti di vivacità, intimità e quotidianità – è il luogo di un impegno etico attraverso il quale la scrittrice lega la forma della propria parola al destino sociale suo e degli altri. La sua è una lingua di sofferenza e di dolore, di rimpianto e di rabbia, di emarginazione e di solitudine, di disincanti e di non speranze. Il romanzo è un viaggio nella memoria e a un tempo memoria di un viaggio senza ritorno, quest’ultimo sottolineato dai sintagmi partivamo per non tornare. Eravamo eroi più grandi (di Ulisse).

Con immagini di grande plasticità, che suscitano profonde emozioni, l’autrice evidenzia il fatto che gli emigranti e ancor più i profughi, specie se politici, sono sempre sottoposti ad una serie di emozioni sconvolgenti: tutti i luoghi e tutti i tempi saranno semplicemente lontananza dal mio paese; stare e andare era per sempre; che buso in aqua partir. Partire costretti significa uscire dalla sicurezza della propria casa tanto amata: abitavo al numero 89 di via sant’Ermacora. La mia casetta grigia era sostenuta dalle altre. Papà davanti alla finestrella della cucina aveva fatto un terrazzino – da lì vedevo il mare e quanto vi passava. Partire era allontanarsi dal proprio luogo natale: il mio regno era la Punta: piccole vie che mostravano il mare. Partire era provare la nostalgia di una vita vissuta in simbiosi con la natura, molte volte antropomorfizzata: la “bavisèla” sulle altane giocava tra i panni stesi ad asciugare; sui terrazzi scoppiavano gerani vellutati, che il vento si divertiva a spettinare; il mare, anche se scuro, respirava trapunto di stelle e di barche, efficace immagine – quest’ultima – seguita da una interessante espressione idiomatica usata come similitudine: un prato che la sera fiorissi e la matina el svampissi. Il mare, vita, libertà, felicità, è il grande amore di Elsa Fonda, che per descriverlo ricorre a espressioni di forte intensità, ascoltando il suo respiro, conoscendolo come i muri che la salsedine corrodeva; quel mare che da solo le dava un benessere totale quando si immergeva, galleggiava tra i pesci in perpetua fuga. Nel mare immagina di essere una sirena; ma dopo il sogno l’autocritica, molto presente nel romanzo, la porta a dire ma mi sentii sgraziata e ridicola. Amore per il mare che le fa compagnia con lo sciacquio della risacca; il mare di Pirano, sua città natale, lingua di terra protesa nel mare, piccolo paradiso, inconfondibile nella sua grazia. Per l’autrice Pirano è il solo posto in cui vivere: che bel, mi no ’ndassi mai via de qua. Il dialetto, usato con acuta sensibilità, diventa qui endofasia dell’anima. L’amore per la sua città viene inoltre espresso da sintagmi di incisiva emotività e sensualità: Pirano era la mia mamma. La mia vera unica mamma era quella terra profumata di pesce fritto. Con una appropriata metafora Elsa Fonda, profuga da Pirano, diventa una barca senza attracco e senza ormeggi, chiusa in una straziante orgogliosa solitudine, sempre in lotta per affermarsi in ambienti a volte avversi: Trieste era grande e ostile, la città mi guardava ma non mi vedeva.

Il romanzo di Elsa Fonda è un accumulo di testimonianze preziose, di fotografie, di citazioni, di documenti e di importanti forme linguistiche dialettali. Molto interessanti sono alcuni lessemi ormai desueti, quali ad esempio: albòl, cialdìna, calandràca, caràcia, ficòn, fufignàr, gùa, ramìna, stura, suf, veta, ecc., vocaboli questi molto più vivaci e immediati di quelli della lingua perché avvicinano il lettore alla quotidianità del racconto.

Vanno infine ricordati alcuni nomi e soprannomi presenti nel romanzo – quali La Monaro, Baba longa, il grasso Bacchettina, siora Ostia, Sbrega-fero, Spacamonti, Pacia-ovi, Pacia-bacalà, la vedova Balona, la Pupolota, Rina Butasela – che evocano nostalgici ricordi del paese perduto per sempre, un universo dove i bambini giocano col creato e spiragli di cielo svelano il mistero del cosmo.

Nel testo compaiono anche interessanti idiomatismi, proverbi e filastrocche usate per i molti giochi delle màmole e dei màmoli, giochi descritti con estrema vivacità e acuto rimpianto.

La meticolosa descrizione degli usi e dei costumi traccia un quadro socio-culturale dell’epoca, dove vengono evidenziati modelli comportamentali e in particolare i codici di abbigliamento nonché i codici alimentari della quotidianità, della festa, della malattia e della penuria del periodo bellico.

La scrittura – come l’affabulazione – ha per l’autrice una funzione catartica; serve a mitigare il dolore: il rapporto solitario con la carta mi confortava, dolore che prova anche a causa del rapporto conflittuale con i genitori: volevano che fossi la migliore. Io volevo soltanto che mi amassero teneramente. Bramavo le loro tenerezze. Avrei voluto parlare con loro.

Desiderosa di amore e di giustizia, Elsa Fonda – orgogliosa, idealista, ribelle e anticonformista – ricerca sempre il meglio, la verità, la giustizia, e scrive: vissuta in tempi di evidente ingiustizia, assetata di idealità, attratta dal fascino dell’arte, mi preparavo a diventare vittima di sogni troppo grandi. Volevo capire la chiara parola di una voce libera. La vita deve avere uno scopo. L’uomo deve volere il giusto. E nella vita – che con una efficace metafora l’autrice paragona a una fiaba – a fianco della verità e della giustizia deve esserci sempre anche l’amore: La vita è come una fiaba che si racconta a chi si vuol bene, che si desidera sia compresa da chi più amiamo.

Livia de Savorgnani Zanmarchi